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giovedì 26 marzo 2009

"Creatività e management, antagonismo o sinergia?"

Mercoledì 25 ho avuto la possibilità di partecipare ad una interessante tavola rotonda dal titolo “Creatività e management, antagonismo o sinergia?” organizzata da Domus Academy presso il salone d’onore della Triennale di Milano.
L’incontro ha visto la partecipazione di un gran numero di direttori di periodici, stilisti e imprenditori della moda e a mio avviso è stato decisamente interessante e diverso dai soliti convegni a cui noi giornalisti siamo soliti partecipare.
Ad aprire i lavori, dopo i brevi interventi di Maria Grazia Mazzocchi, presidente Domus Academy, e Barbara Trebistch, direttore Fashion Dept. Domus Academy, è stato Antonio Mancinelli, critico di moda e caporedattore di Marie Claire, con una interessante considerazione scaturita dalla lettura di due articoli: il primo di Natalia Aspesi sul “licenziamento” di Alessandra Facchinetti fatto dalla Maison Valentino attraverso i media e il secondo di Anna Wintour sul ruolo dei creativi e soprattutto dello stilista di Nina Ricci Olivier Theyskens.
Fra gli ospiti il primo a parlare è stato Albino d’Amato, direttore creativo dell’omonima griffe, denunciando un appiattimento generale della moda e della cultura nel consumatore finale, oltre ad un crollo di circa il 30% nelle vendite a causa della crisi mondiale.
Lo stilista ha però detto che essendo imprenditore di se stesso non sente il peso di un sempre più pressante ruolo direzionale del management, cosa che invece percepisce nelle collaborazioni con grandi realtà, come ad esempio Les Copains.
Maurizio Modica e Pierfrancesco Gigliotti, direttori creativi di Frankie Morello, hanno puntato il dito contro la banalità della televisione e sulla mancanza di arte nella moda, a cui loro sono profondamente legati in quanto Maurizio proviene dalla coreografia e Pierfrancesco è architetto.
Ricordano anche come alla loro ultima sfilata maschile abbiano portato in passerella alcuni artisti di Brera che dipingevano e di aver ricevuto aspre critiche da buyers anche molto importanti che evidenziavano come gli artisti, di natura poveri, non attirano e non rendono desiderabile un prodotto.
Carlo Rivetti, presidente ed amministratore delegato di Sportswear Company, rimembra come da piccolo i suoi genitori gli avessero insegnato che la moda è un settore a bassa managerialità e che il management deve supportare e non controllare.
Rivetti, laureato in Marketing presso l’Università Bocconi, evidenzia come la crisi debba essere affrontata attraverso un’analisi dei problemi distributivi e un cambiamento dei modelli in modo da non ripetere gli errori che hanno portato a questa situazione.
Con grande ottimismo ricorda come dalla crisi degli anni Settanta siano nati i più grandi stilisti dei nostri tempi, da Gianfranco Ferrè a Giorgio Armani, e come proprio quest’ultimo abbia rivoluzionato tutto portando nella moda, allora gestita da ingegneri, la creatività.
Antonio Berardi, stilista della griffe che porta il suo nome, ha ripercorso la sua carriera da quando, nel 1999, ha abbandonato Londra, dopo anni in cui era stata capitale della creatività, scegliendo Milano e non, come la maggior parte dei suoi colleghi, Parigi o New York.
Arrivato in Italia aveva cercato di portare la sua gioia di vivere inglese, scegliendo di sfilare anche a tarda sera, ma senza ricevere un riscontro interessante.
Scelse così di trasferirsi a Parigi, una città in cui ha avuto maggiore visibilità e dove il rapporto con i media è stato decisamente migliore di quanto fosse stato durante il suo periodo milanese.
Antonella Antonelli, direttore di Marie Claire, ha denunciato una situazione tipicamente italiana di manager che hanno massificato la moda e “tarpato le ali” alla creatività.
In Francia esistono manager più illuminati come da Louis Vuitton, un marchio che sostiene l’estro e la genialità di Marc Jacobs vendendo principalmente prodotti nel monogramma tradizionale della Maison.
Paola Acquati, responsabile moda della trasmissione Nonsolomoda, ha parlato di un’esperienza privilegiata perché non legata a vincoli pubblicitari in quanto la moda ha sempre snobbato la televisione, giudicata eccessivamente “popolare”.
Così ha potuto trasmettere stilisti emergenti e non solo grandi nomi, anche se in televisione c’è la necessità di fare spettacolo e ovviamente funziona di più lo show di John Galliano piuttosto che una sfilata di Jil Sander.
Conclude sostenendo che i defilè debbano essere riservati esclusivamente alla stampa in quanto i compratori hanno già acquistato in precedenza nelle show-rooms.
Roberto D’Incau, Head Hunter settore Fashion Luxury, ha evidenziato la necessità di figure che uniscono management e creatività attraverso un’integrazione di linguaggi, mentre Michela Gattermayer, direttore di Velvet, ha esordito dicendo di essere figlia della crisi e di essere stata lasciata molto libera dal suo editore di fare un giornale decisamente creativo.
Secondo Gattermayer la gente è molto più preparata di quanto si creda e oramai la tendenza è mescolare alta moda con pronto moda (lei stessa indossava pantaloni H&M e cappotto di una grande griffe).
Rimane comunque il desiderio di cose belle, che vendono comunque, mentre sono le cose brutte che non vengono più acquistate.
Giulia Pessani, direttore di Gentlemen, parla dell’importanza di valorizzare la creatività con le vendite e il business e di come anche l’arte contemporanea stia seguendo il modello della moda.
Anna Dello Russo, fashion editor di Vogue Giappone, descrive la moda come una grande musa che deve essere soddisfatta e il linguaggio di questo mondo come internazionale e senza frontiere.
In Giappone, dove si è recata dopo aver collaborato per molti anni all’edizione italiana di Vogue a fianco di Franca Sozzani, ha trovato una passione totale per la moda e quindi lì si sente una vestale attorno ad un tempio.
Dello Russo ha evidenziato come fortunatamente si stia ritornando verso un minor numero di collezioni che dovrebbe restituire un ruolo di primaria importanza alla creatività e non ai numeri, che andrebbero a suo parere resettati.
Francesco Morace, presidente Future Concept Lab, ha dichiarato che non siamo più in un’epoca di cambiamenti ma all’interno del cambiamento di un’epoca.
Le persone a suo parere sono artisti di loro stessi, veloci nelle scelte e nel comprendere le differenze fra i vari prodotti.
Evidenzia come solo qualche anno fa un incontro come quello in corso non si sarebbe potuto svolgere mentre ora c’è voglia di parlare, di affrontare i problemi cercando di capire quello che sta accadendo e lavorando per risolverli.
La moda è stata coinvolta nella crisi prima di altri settori ma proprio grazie all’individuazione rapida dei problemi ci sono aziende che continuano a crescere.
Roberta Valentini, titolare dei negozi Penelope e vice presidente della Camera Italiana Buyer Moda, ha raccontato il suo percorso che è sempre stato focalizzato sulla ricerca.
Nei suoi multimarca ha cercato di proporre un lusso alternativo, fatto di marchi sperimentali o non dai soliti grandi nomi.
A suo parere la crisi è arrivata anche per i troppi consumi e per la troppa volgarità.
L’imprenditore Giovanni Bonotto ha chiuso la prima sessione affermando che non è in atto una crisi ma solo un grande cambiamento d’epoca e quindi tutti dobbiamo cambiare il nostro modo di vedere il mondo.
Bonotto ritiene che fino ad oggi la moda sia stata in gran parte comunicazione e che i prodotti nel tempo siano stati “svuotati”, eliminando alcuni piccoli processi produttivi.
Il suo modello è la fabbrica lenta in cui ogni collaboratore mette a disposizione le sue competenze e la sua maestria, cercando così di evitare l’automazione e ritornando all’artigianalità in modo da ridare identità al prodotto.
Conclude affermando che gli uffici stile dovrebbero diventare delle officine e non rimanere solamente glamour.
Insomma per una volta il sistema moda italiano sembra davvero fare sistema.

Luca Micheletto

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